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L’origine e il nome

Cominciamo dal nome. A Reggio esiste da moltissimi secoli l’importante basilica di san Prospero. Perché dunque la “nostra” San Pietro si chiama in realtà Chiesa dei santi Pietro e Prospero, come è scritto nella grande lapide sul portale d’ingresso? Dobbiamo fare un passo indietro.

Fin dal Medioevo, poco fuori dalle mura della città esisteva il monastero benedettino di San Prospero, che era fra i più grandi e importanti dell’Italia settentrionale. Ma nel 1510, dopo la distruzione della torre e di parte della chiesa per motivi bellici (la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento videro conflitti, divisioni interne, atti di violenza), i monaci pensarono di trasferirsi in luogo più difeso, dentro le mura cittadine. Progettarono di acquistare nella zona compresa tra la via Emilia, il Campo Samarotto e via di san Marco (oggi viale Monte san Michele), un’area di circa 15.000 mq. sulla quale sorgeva la piccola chiesa di san Pietro. Il progetto era impegnativo non solo economicamente, ma anche sotto il profilo giuridico ed ecclesiastico, in quanto comportava il trasferimento di beni da un’istituzione (parrocchia di san Pietro) ad un’altra (monastero di san Prospero).

Il parroco di san Pietro, Bernardino Boiardi, aveva da tempo a Roma un ruolo importante accanto al pontefice (prima Giulio II, poi, dall’inizio del 1513, Leone X), e favorì l’operazione, che venne autorizzata solennemente da una Bolla (“Lettera bollata”) di papa Leone X del 6 giugno 1513. Sarà bene ricordare che il papa, ossia Giovanni de’ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico, era un fine letterato, amico di gioventù di Ludovico Ariosto, e grande protettore dei maggiori artisti del tempo, a cominciare da Raffaello. Quando si osserva l’alto valore artistico dei Chiostri e della chiesa stessa, è bene tener presente che il complesso monumentale prende l’avvio proprio dalla Bolla di Leone X, che specifica con precisione le caratteristiche che esso avrebbe dovuto avere.

Un’altra considerazione preliminare riguarda la condizione di Reggio nel Cinquecento: tormentata sì dall’instabilità e divisione politica di quegli anni, ma anche vivace economicamente e culturalmente, ricca di fede e anche di mezzi materiali. Lo dimostra il fervore con cui ci si dedica alla costruzione o trasformazione di chiese (il Duomo, San Prospero, più tardi il santuario della Madonna della Ghiara); tra queste, la nostra chiesa, che in seguito alla vicenda descritta fu intitolata a san Pietro apostolo e a san Prospero vescovo, conservando nel nome la memoria dei due diversi edifici da cui traeva origine.

Prima di tutto i benedettini si occuparono della costruzione del nuovo monastero, dando inizio nel 1524 alla costruzione del chiostro piccolo e nel 1542 a quella del chiostro grande. Nel frattempo la piccola chiesa di san Pietro, che era più ad est rispetto all’attuale ed orientata in modo diverso (secondo l’asse est-ovest), continuava a svolgere la sua funzione. Ma durante il completamento del  chiostro grande si rese necessario abbattere la vecchia chiesa, non compatibile col nuovo edificio, e dedicarsi a costruire la nuova chiesa. Nell’insieme, i lavori (chiostro piccolo, chiostro grande e chiesa) comportarono un grande impegno finanziario e si svolsero nell’arco di circa un secolo, fino al terzo decennio del Seicento.

Il contesto culturale

L’epoca alla quale ci riferiamo è di particolare importanza per la storia della Chiesa e anche per la storia dell’arte. Infatti, il Concilio di Trento (1545-1563) riconobbe e valorizzò la funzione dell’arte e dell’architettura sacra per ispirare nei fedeli la giusta devozione e per favorire l’ascolto delle prediche, la partecipazione alla liturgia, l’apprendimento di episodi e figure della storia sacra. Le indicazioni molto precise del Concilio sono applicate fedelmente nella nostra chiesa, che a Reggio fu la prima ad essere costruita ex novo in questo periodo, senza conservare un impianto precedente, come avviene invece per San Prospero e per la Cattedrale.

I progetti

La progettazione della chiesa, attestata da diverse planimetrie conservate nell’Archivio di Stato di Reggio, passa attraverso varie fasi, prima di giungere all’elaborazione definitiva. L’incarico è affidato nel 1584 all’architetto bolognese Giulio della Torre, al primo lavoro di grande responsabilità. Il suo primo disegno, che raffigura l’intero complesso col monastero, mostra una chiesa a navata unica, con cinque cappelle per lato, transetto e abside rettangolare, più campanile e sagrestia. La navata unica è in evidente ossequio ai dettami conciliari: le chiese a tre o cinque navate, infatti, erano considerate non rispondenti all’esigenza di mantenere uno stretto legame tra il celebrante o il predicatore e il popolo. La facciata prevedeva un portico d’ingresso (anche questo secondo i principi conciliari), che nei disegni successivi però scompare. Nel secondo disegno l’abside diventa semicircolare e si prevede la costruzione di una cupola all’incrocio tra navata e transetto. Il terzo e definitivo progetto è in sostanza simile al secondo, con l’aggiunta delle aperture che mettono in comunicazione le varie cappelle e con la riduzione delle porte d’ingresso da tre a una sola.

La costruzione

Il 19 aprile 1586 il vescovo Giulio Masetti benedice solennemente la prima pietra della nuova chiesa. L’anno seguente subentra nella direzione del cantiere il mantovano Sebastiano Sorina, definito ingegnere. I lavori procedono speditamente: nel 1588, mentre si scavano le fondamenta per il campanile (in posizione non chiaramente individuata), il coro è in pratica terminato ed è già utilizzato per la liturgia. Mentre procede la costruzione, si abbatte man mano la vecchia chiesa di san Pietro, conservando però con cura i materiali riutilizzabili, come prescriveva la Bolla papale sopra ricordata.  Entro il 1595 vengono completati i due bracci del transetto e la cappella maggiore. Viene costruito e decorato l’altare maggiore e negli ultimi anni del secolo si provvede agli arredi e paramenti liturgici. Dopo una pausa di circa quindici anni, forse dovuta a difficoltà finanziarie e al fatto che la nascita del cantiere della Ghiara assorbe in gran quantità maestranze e materiali, i lavori riprendono e già nel 1617-18 si registrano i pagamenti per il cornicione, il tetto, le volte e gli ornati della navata. Questa fase conclusiva si deve all’opera di Pietro Pezzi da Lugano.

La cupola

Pochissimi anni dopo, tra il 1625 e il 1629, viene innalzata la cupola, già prevista nel progetto di Della Torre. Il progettista è Paolo Messori, canonico del Duomo, che aveva da poco costruito la cupola della cattedrale. Di questa figura, appartenente a una nobile famiglia reggiana, non si conoscono formazione ed esperienze. Dalle sue annotazioni risulta chiaro che seguì con attenzione costante il lavoro, al quale partecipava anche il già citato Pietro Pezzi.

 

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Chi abbia alzato lo sguardo a contemplare l’esterno della cupola non può non aver notato la somiglianza con il “cupolone” romano, costruito su disegno di Michelangelo e finito nel 1593: non è un’illusione ottica e nemmeno una forma di autocompiacimento reggiano. Sono state scrupolosamente descritte e dimostrate le somiglianze (e anche qualche differenza) tra le due cupole. E’ possibile che, oltre a vedere le numerose incisioni a stampa che circolavano sui lavori in corso a Roma, Messori abbia anche visitato di persona la basilica di San Pietro. La cupola reggiana, come quella romana, è doppia (calotta interna in muratura, calotta esterna in legno e piombo), e si discosta dal progetto michelangiolesco, che prevedeva un profilo a tutto sesto, a favore del profilo a sesto rialzato, come avviene anche a Roma nella cupola completata da Giacomo della Porta. Se effettivamente Messori si recò a Roma, potrebbe aver visto anche la cupola di Sant’Andrea della Valle, innalzata da Carlo Maderno nel 1608, che pure presenta notevoli analogie con la cupola reggiana.

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La cripta

Verso il 1665, i monaci intrapresero la sistemazione dei sotterranei della chiesa, fino ad allora mai utilizzati se non come sepolcreto e danneggiati da una forte presenza di umidità. Tre disegni mostrano il progetto: lo spazio corrispondeva a transetto, cappella maggiore e abside, e ventisei pilastrini di mattoni sostenevano le volte. L’accesso dalla chiesa avveniva mediante due scale poste in prossimità della fine della navata, accanto ai due grandi pilastri sostenenti la cupola. Le scale, tuttora esistenti, sono state però chiuse durante i restauri del 1929 a causa del ricorrente problema dell’umidità. Nella cripta, che venne inaugurata e aperta al culto nel 1666, si trovavano cinque altari: uno in corrispondenza del sovrastante catino absidale, uno, di fronte al primo, tra le due scale, uno per parte alle estremità del transetto, ed infine uno detto “grotta di san Benedetto” in una piccola cappella sul lato ovest. La cripta venne regolarmente officiata fino alla soppressione del convento benedettino, che avvenne nel 1783.

Il campanile

Come si è accennato, durante i lavori per la chiesa si fecero anche scavi per la torre campanaria, in una posizione che però non è stata individuata con precisione (forse coincidente con la piccola cappella di santa Scolastica, costruita nel 1763, alla quale si accede dal transetto sinistro). I lavori iniziati nel 1588 furono interrotti, e soltanto nel 1764 i benedettini decisero di completare la chiesa con il campanile, affidando l’opera all’architetto reggiano Andrea Tarabusi. Doveva probabilmente trovarsi lungo via Samarotto, in posizione arretrata e discosta rispetto all’abside. Tarabusi progettò un campanile molto alto (circa 87 metri) sulla base di quattro grandi pilastri che incorniciavano un portale (forse accesso al monastero da questo lato).

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Al di sopra di un cordolo, la parte in elevazione presentava una muratura compatta con due finestre sovrapposte ed era rifinita da un altro cordolo in cui era inserito un orologio. Al di sopra, si prevedevano tre piani via via più snelli, alleggeriti da grandi finestre, e infine una cuspide sagomata. Il progetto (conservato in copia nella sagrestia) presenta molte somiglianze col campanile della chiesa parrocchiale di Villa Sesso (1744), alla cui costruzione Tarabusi partecipò. I lavori furono interrotti dopo un solo anno per le eccessive spese che comportavano.

La facciata

Fino quasi alla fine del Settecento san Pietro ebbe una facciata provvisoria. Fu nel 1782 che i monaci diedero all’architetto reggiano Pietro Antonio Armani l’incarico di sistemarla in modo definitivo, probabilmente tenendo conto  di elementi già presenti. La facciata è caratterizzata dal timpano triangolare, dalla grande finestra a serliana, dall’ordine dorico sormontato da un alto cornicione con fregio a triglifi. Semplici volute costituiscono il raccordo dell’ordine superiore col piano dei tetti. Sulla semplicità dell’insieme spicca il portale, con timpano curvo spezzato, sormontato da un’edicola.

Importanti lavori di restauro eseguiti nel 1983 hanno permesso il consolidamento della cupola e il ripristino dei colori originari della muratura. Ulteriori interventi sono stati resi necessari dai terremoti del 1996 e del 2000.

S.L. 

 

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Fonti:

Bruno Adorni, Elio Monducci, I Benedettini a Reggio Emilia, vol. I, Diabasis, Reggio Emilia 2002.

Storia della Diocesi di Reggio Emilia-Guastalla, vol. II,  Morcelliana, Brescia 2012

Storia della Diocesi di Reggio Emilia-Guastalla, vol. III, 2. Morcelliana, Brescia 2014

Bollettino storico reggiano, a cura della Deputazione di storia patria per le antiche provincie modenesi – sezione di Reggio Emilia, anno XLVI, fascicolo 152, settembre 2014.